Per assicurare un’informazione di qualità è indispensabile uscire dalla logica dei 3 euro lordi a pezzo
In questo scorcio di fine anno, si parla sempre più di qualità dell’informazione, di “notizie bufala” (“fake news”) o infondate, diffuse ad arte solo per suscitare reazioni o link al sito digitale che le ha diffuse, ma non ci s’interroga realmente di come la qualità nell’informazione sia applicata e quanto costi farlo.
L’art. 2 comma 1 della legge n. 233/2012 sull’equo compenso nelle attività editoriali ha aperto la corsa al ribasso prima nelle retribuzioni di chi opera nel settore e, conseguentemente, anche nella qualità del lavoro del giornalista. Un decreto che ha fatto gioco soprattutto ai grandi gruppi editoriali, forti di una forza lavoro pachidermica, ultrapagata e ultragarantita che non ha trovato di meglio che agire sulla leva delle migliaia di collaboratori autonomi (oltre due terzi degli iscritti all’Ordine dei giornalisti sono ormai dei lavoratori autonomi) taglieggiando indiscriminatamente sulle loro retribuzioni. Così facendo, è improbabile che si riesce ad avere la qualità che i lettori giustamente reclamano. Difficile fare un articolo con tutti i crismi quando si è pagati, quando va bene, 5 euro a pezzo lordi (con casi, frequenti, anche sotto questa soglia). Cosa è possibile fare con 5 euro a pezzo, quando per vergare anche solo una notizia breve serve almeno un quarto d’ora per scriverla correttamente senza lasciare il testo infarcito d’errori di battitura o strafalcioni grammaticali, per non dire del tempo necessario per acquisirla? Cosa si può fare quando si è retribuiti con 20 euro all’ora, per giunta lordi? Poco e per giunta male.
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